BORSELLINO? NON C’ERA VOLONTA’ DI PROTEGGERLO

Voglio condividere queste bellissime parole del Caposcorta Emanuele Filiberto, scampato al massacro perchè in malattia quel giorno.

Sono passati trent’anni dalla strage di via D’Amelio. Palermo fu sconvolta da un’altra esplosione, a poche settimane dalla strage di Capaci in cui erano morti Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e la scorta: Rocco Dicillo, Antonio Montinaro,Vito Schifani. Erano ancora calde le lacrime del 23 maggio, quando il 19 luglio del 1992 la violenza della mafia portò via Paolo Borsellino e i suoi “angeli custodi”: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina.Trent’anni di ricerca della verità, di processi e di ombre che, ancora, si addensano sulla strage. Pochi giorni fa, c’è stata la sentenza sul depistaggio: il tribunale di Caltanissetta ha dichiarato prescritte le accuse contestate a due dei tre poliziotti imputati, mentre un terzo è stato assolto. Un evento che è stato commentato duramente dai parenti delle vittime di mafia. Sia Maria Falcone, sorella di Giovanni, che Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, hanno espresso, con toni diversi, la loro amarezza. «Ancora una volta ci è stata negata la verità piena su uno dei fatti più inquietanti della storia della Repubblica», ha detto la sorella del giudice Falcone. Il giudice Antonio Balsamo, oggi presidente del Tribunale di Palermo ed ex presidente della Corte d’assise di Caltanissetta, ha lanciato un appello: «Credo che un modo fortemente significativo di rendere onore alla memoria di questi grandi italiani, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sia di farsi carico di un impegno di ricerca della verità senza compromessi da parte di tutte le istituzioni e dello Stato». 

«Io li voglio ricordare per come li ho conosciuti anche se quello che ho visto quel 19 luglio non sono bei ricordi. Vedere quei pezzi di carne bruciata…Quello è un giorno che mi ha segnato tantissimo, ma sono convinto che loro sono ancora qui. Forse quando avranno finalmente giustizia saliranno in Cielo. Un giorno, proprio qui, cominciai a sentire un fortissimo profumo dei gelsomini, poi arrivò una fortissima folata di vento e finì. Per me loro sono qui».

Si commuove l’assistente capo della Polizia, Emanuele Filiberto, mentre in via D’Amelio, sotto l’ulivo memoria della strage, ricorda “il mio amico Paolo” e i suoi colleghi, Agostino Catalano, Claudio Traina, Walter Eddie Cosina e Emanuela Loi, “la mia sorellina”. Lui era il caposcorta del magistrato ma in quel mese di luglio era in malattia per un’operazione, «ma volevo rientrare al più presto». Cinquantaquattro anni, in Polizia da 30 anni, dal 1990 nel servizio scorte, ancora oggi tutela le persone più a rischio. E tutti i giorni passa per via D’Amelio, dove l’ulivo piantato dalla famiglia Borsellino si riempie continuamente di foto, lettere, disegni. «Per noi è un luogo sacro. Ci vengo molto spesso. Gli accendo una sigaretta… Paolo fumava tantissimo. La accendo, la appoggio sui quei sassi, e mi sembra di vederla aspirare».

E in questa lunga chiacchierata ricordi tristi si accompagnano a quelli allegri. «Un giorno entrai nella sua stanza e mi bloccai. “Ma perché mi guardi così?”. “Dottore mi sa che per lei è arrivato il momento di smettere di fumare”. “E perché?”. “Perché ne ha una in bocca e una accesa in mano”». Parlare con lui è conoscere anche il Borsellino privato. «Ricordo benissimo il primo giorno. Arrivai a casa sua, suonai il campanello e mi aprì la signora Agnese. Le dissi: “Buon giorno mi chiamo Emanuele Filiberto e sono il caposcorta di suo marito”. Mi rispose: “Scusi come ha detto che si chiama?”.

Pensai: “È la solita storia del principe Emanuele Filiberto…”. Allora lei chiamò. “Paolo, Paolo”. Arriva lui con in mano una tazzina di caffè. “Agnese cosa è successo?”. “Può dire lei a mio marito come si chiama?”. “Dottore buon giorno, come ho detto a sua moglie mi chiamo Emanuele Filiberto…”. “Hai visto Paolo, il ministero dell’Interno ti ha mandato un principe”. Mi fissò, poi guardò Agnese e disse: “E tu Agnese tieni un principe davanti alla porta? Si accomodi, le offro la prima tazzarella di caffè”. E da lì è nata un’amicizia incredibile, per me è stato un secondo padre, il mio fratello maggiore, un amico». E i ricordi si accavallano nel tempo. «Avevamo tante cose in comune, il mare, la barca, la squadra del cuore, l’Inter. Proprio nel 1992 mi disse che aveva intenzione di andare a vedere una partita a Milano. “Sabato alloggiamo alla Pinetina, dove si allena la squadra, la domenica andiamo a San Siro a vedere la partita e poi rientriamo a Palermo”. “Beato lei dottore”.

Fonte: avvenire.it

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