FACEBOOK & INSTAGRAM DICONO ADDIO ALL’EUROPA?

Facebook e Instagram potrebbero chiudere in Europa. Scenario quasi surreale, sogno di alcuni e incubo di molti, la sparizione dei social ancora più popolari del pianeta dal mercato europeo è stata paventata come ricatto estremo da Mark Zuckerberg nel gioco dei dati tra Europa e Stati Uniti.

La minaccia è seppellita nel rapporto annuale di Meta alla Sec, la commissione di vigilanza della Borsa americana. Una breve frase che ha allertato la stampa specializzata: Meta potrebbe “essere costretta” a chiudere Facebook e Instagram in Europa se venissero messi a rischio scambio, raccolta e conservazione transcontinentale dei dati. L’azienda si è detta fiduciosa che un accordo venga raggiunto nel 2022, ma se questo non dovesse accadere, “probabilmente non saremo più in grado di offrire alcuni dei nostri prodotti e servizi più importanti, compresi Facebook e Instagram, in Europa”. A una richiesta di chiarimento, il vicepresidente di Meta per gli affari globali, Nick Clegg, ha auspicato che il legislatore europeo adotti un “approccio pragmatico e proporzionato” per impedire che “migliaia di aziende, compresa Facebook, subiscano gravi danni”.

Ma è evidente che a temere una nuova stretta sulla privacy transcontinentale non è certo il supermercato che raccoglie nome e indirizzo con la tessera fedeltà: sono i colossi della tecnologia, multinazionali della socialità digitale, a essere al centro proprio in questi mesi di un negoziato delicatissimo tra le due sponde dell’Atlantico.

La sentenza Schrems e la mossa di Meta
Quella di Meta è una mossa preventiva (e una seria minaccia, per le decine di migliaia di aziende europee che hanno fondato il loro business sul traffico e la pubblicità su Facebook e Instagram e sui loro servizi di messaggistica) di fronte alla revisione degli accordi bilaterali in materia di scambio di dati tra Usa ed Europa. La materia si trova in un limbo legislativo da luglio 2020, da quando cioè la sentenza Schrems della Corte europea di Giustizia ha sospeso il Privacy Shield (che sostituiva il Safe Harbour, a sua volta affondato nel 2015 da una sentenza europea) perché non forniva sufficienti garanzie che nel trasferimento di dati personali di cittadini europei in un Paese terzo venissero rispettati gli standard di privacy imposti in Europa, in particolare rispetto alle intrusioni delle agenzie di sicurezza nazionale.

Tutto è tornato sul tavolo negoziale e la possibilità concreta che la Ue fornisca ai cittadini strumenti più forti per proteggere la propria privacy online è una prospettiva che spaventa le aziende americane. Il presidente Biden ha cercato senza successo di raggiungere un compromesso durante il summit del giugno scorso con la presidente Ue, Ursula von der Leyen. Si lavora adesso a un accordo che non implichi modifiche legislative indigeribili per il Congresso Usa, ma che rafforzi regolamenti già esistenti, e che dia ai cittadini europei la possibilità più concreta di ricorrere (individualmente o tramite i governi) contro le violazioni della privacy.

Un’intesa potrebbe essere annunciata prima del prossimo Trade and Tech Council di maggio. E Zuckerberg si è ufficialmente seduto al tavolo, con la sua velata minaccia. Una minaccia che però segnala una criticità da parte delle Big Tech rispetto alle regole europee che, spiega Ernesto Belisario, avvocato esperto di diritto delle tecnologie, “stanno riuscendo a fare qualcosa che fino a poco tempo fa sembrava impossibile: rendere reversibili processi che sembravano consolidati. L’Europa rivendica un ruolo nell’evoluzione tecnologica e lo fa seguendo le sue corde, attraverso le regole e i diritti, non attraverso il capitale o le società”. Dopo il GDPR, la legislazione europea sul digitale si sta per rafforzare con il Digital Services Act, la legge sui servizi digitali appena approvata dal Parlamento europeo: “Avrà un impatto ancora più importante rispetto al GDPR perché stabilisce norme specifiche per le grandi piattaforme, quelle che possono raggiungere almeno 450 milioni di persone nella Ue, impone trasparenza sulla regole di moderazione e sugli algoritmi, responsabilizzazione sui contenuti nocivi. E poi c’è un emendamento sulla pubblicità mirata che, se dovesse restare nella versione finale del regolamento, potrebbe porre fine a quello che Shoshana Zuboff ha definito il ‘capitalismo di sorveglianza’: le aziende tech non potranno raccogliere dati in ambiti particolari, come le posizioni politiche, il credo religioso, e gli utenti potranno rifiutare di fornire questi dati senza avere ripercussioni sulla fruizione dei servizi. Le sanzioni poi salgono fino al 10% del fatturato. Questo genere di regole potrebbe imporre una revisione del modello di business adottato finora, che è un po’ l’auspicio anche di molti critici delle grandi piattaforme: nessuno ne vuole la chiusura, ma devono invertire la rotta”.

Il commento di Meta
“Non abbiamo assolutamente alcun desiderio e alcun piano di ritirarci dall’Europa, semplicemente Meta, come molte altre aziende, organizzazioni e servizi, si basa sul trasferimento di dati tra l’UE e gli Stati Uniti per poter offrire servizi globali. Come altre aziende, per fornire un servizio globale, seguiamo le regole europee e ci basiamo sulle Clausole Contrattuali Tipo (Standard Contractual Clauses) e su adeguate misure di protezione dei dati. Le aziende, fondamentalmente, hanno bisogno di regole chiare e globali per proteggere a lungo termine i flussi di dati tra Stati Uniti ed UE, e come più di 70 altre aziende in una vasta gamma di settori, mano mano che la situazione si evolve, stiamo monitorando da vicino il potenziale impatto sulle nostre operazioni europee”, dichiara un portavoce di Meta.

Fonte: repubblica.it

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